Dopo la famosa sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio del 1975, con cui si attribuisce la causa della tragica morte di Giuseppe Pinelli a un fantasioso quanto improbabile “malore attivo” (questo è il senso di quanto è stato scritto in sentenza) nel tentativo di chiudere con una pietra tombale la vicenda del suo assassinio avvenuto nei locali della questura centrale di Milano, il livello di denuncia e di accusa dei movimenti popolari non si arresta, anzi si eleva di tono e d’indignazione.
Pertanto non fu un caso che il 9 maggio del 2009, a 40 anni dai tragici eventi l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, prese l’iniziativa d’invitare al Quirinale, in occasione della “giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi”, oltre la vedova di Luigi Calabresi, Gemma Capra accompagnata dal figlio, anche la vedova di Giuseppe Pinelli, Licia Rognini accompagnata da una figlia.
Al di là delle parole spese per l’occasione – “Ridare e riaffermare l’onore di Pinelli” che “fu vittima due volte” e di “rompere il silenzio” sulla vicenda – la finalità politica di quell’incontro fu di mettere sullo stesso piano la morte di Pinelli e quella di Calabresi. Quali che siano stati il ruolo e il grado di responsabilità del commissario Luigi Calabresi, egli fu sicuramente parte attiva di quell’ingranaggio repressivo di cui Giuseppe Pinelli fu vittima innocente. Né la morte tragica, tutt’ora misteriosa malgrado processi e condanne sulla cui veridicità non crediamo, non lo assolve.
Molto è stato scritto sugli eventi che hanno portato al 12 dicembre 1969 e su quella che abbiamo definito una “Strage di Stato”, utilizzando servizi segreti e organizzazioni fasciste, allo scopo di fermare l’ondata crescente delle lotte sociali e rivendicative. Questa storia è ormai di dominio pubblico, non può e non deve cadere nell’oblio e occorre ricordare sempre alle nuove come alle vecchie generazioni che il pericolo di una svolta autoritaria è sempre dietro l’angolo e l’imbarbarimento a cui stiamo assistendo in questa fase storica rischia di facilitarla.
La figura di Giuseppe Pinelli, a cominciare dal libro di Camilla Cederna in poi, è stata tante volte descritta e in questo cinquantesimo anniversario vogliamo parlare ancora di lui; lo vogliamo però ricordare sotto un particolare profilo: la sua sensibilità verso il mondo del lavoro, il suo essere cosciente che una emancipazione dei lavoratori dal lavoro salariato è la base per un cambiamento radicale della società. E non a caso sceglie di orientarsi verso l’Unione Sindacale Italiana che è stata parte importante nella storia del movimento operaio in Italia prima che il fascismo l’annientasse.
Un orientamento sindacale, quello del Pinelli, che non si limita alle quotidiane conquiste o alla difesa di ciò che si è ottenuto con le lotte ma che ha come obiettivo finale la gestione diretta della produzione da parte dei lavoratori, l’abolizione del padronato, un radicale cambiamento sociale che abbia come finalità una società di liberi ed eguali, di uomini e donne coscienti, istruiti, solidali.
La lettura di queste pagine ci riporta a un momento importante della storia del Novecento, a quei fine anni Sessanta effervescenti per i movimenti di lotta in atto nelle fabbriche, nelle università e nei quartieri. Sono stati raccolti volantini che Pinelli ed i suoi compagni dell’USI-Bovisa (alla quale si affianca l’USI-Centro) hanno diffuso tra i lavoratori, gli articoli pubblicati sul settimanale anarchico “Umanità Nova”, le testimonianze di chi gli è stato vicino nell’attività sindacale e non solo.